sabato 16 luglio 2022

SOMOS FRUTILLAS - CAP 3

 

Mi sono messa questi pantaloni perché l’arancione è il mio colore portafortuna. Non mi immaginavo si sarebbero tinti di rosso in maniera tanto brutale. 

Era ieri. Primo giorno di scuola all’istituto Dagomari. Proviamo con le discipline economiche, a metterla in riga - avrà pensato mia madre. Con l’arte lo scorso anno a Buenos Aires ero risultata troppo “creativa”. 


Sono scesa con RB in un grande parcheggio separato dalla scuola da quattro corsie di auto in corsa. O meglio, su un senso di marcia si sfrecciava, sull’altro erano fermi come se Prato fosse New York. In effetti basta avere troppe macchine o poche strade, ed è subito melodramma e frenate da grande metropoli. Qui però non c’erano taxi gialli ma camioncini e furgoni strabordanti di tessuti e filati e una marea di ambulanze senza sirene con sopra scritto Misericordia.


Mi chiamo Consuelo, tendo a cogliere al volo tutti i retaggi dei nomi che ammiccano all’Altissimo e Famiglia. Diamo alla neonata il nome di quella nonna che non conoscerà mai ed era tanto devota, anche se noi di rado mettiamo il piede in chiesa - ecco come si fa ad essere fedeli alle tradizioni. 

Consuelo Bindelli, figlia di Agostino e Carolina. Mi potevano chiamare, che ne so, Linda?


RB ha parcheggiato la sua Peugeot e mi ha mostrato la gloriosa Passerella. Un ponte moderno scavalca la tangenziale conducendo decine di ragazzi verso le tre scuole allineate in fila. A destra, istituto Datini, che deve all’indirizzo agrario i campetti di coltivazioni assetate da un’estate di incuria, che costeggiano quelli sportivi. Al centro, rosso scarlatto, l’Istituto Dagomari. Sulla destra e meno visibile da qui, il Gramsci Keynes, istituto turistico e piuttosto grande.


Mentre camminavo sul ponte sulla tangenziale dietro altri ragazzi con lo zaino diretti a scuola, ieri mattina, mi sono sentita ad una marcia zombie. Sì, qualche parola tra chi già si conosceva, ma tutto sommato una grande botta di sonno e scarsa allegria. Ed una visibile omologazione generazionale. Le ragazze cinesi indossavano jeans strappati, sneakers e maglietta bianca. Le altre ragazze indossavano tutte leggins neri, sneakers e maglietta o top bianco, corto sulla vita. I capelli erano tutti lisci. Ma che è possibile?


Io percorrevo quella strada dentro i miei shorts arancioni che spiccavano come il primo pomodoro maturo in una pianta acerba. Poi ho un culo vistoso, tendo ad ondeggiare con l’andatura. Stonavo, e questo mi metteva a disagio, anche se non ho problemi di autostima nel sentirmi diversa: mi saliva il disagio del dover essere tutti uguali. Ho avvistato una ragazza molto alta con i capelli azzurri. Ho accelerato per vederla meglio ma no, niente: quella è grande, quella non mi filerà. Mi rimangono gli zombie.


All’ingresso ho avuto bisogno di un paio di minuti per orientarmi ma poi sono arrivata in aula senza dover chiedere niente a nessuno. Sono entrata tra le prime in classe e questo è sbagliatissimo per alimentare un’aria cool. Ma che ci dovevo fare, RB è un tipo puntuale e non mi potevo mettere a gironzolare prima di capire dove ha senso gironzolare in queste mattine zombie. 


Per quanto io fossi in anticipo, in classe c’erano già quattro persone che si sono prese i primi banchi.  Io sono entrata e loro, quadrate, mi hanno squadrato. Hanno indugiato un momento di troppo che mi ha svelato che li avevo un po’ spiazzate, ma non abbastanza da evitarmi l’etichetta di PERICOLO! NON AL NOSTRO LIVELLO che mi hanno apposto all’unisono. Ignorandomi del tutto subito dopo.


Ho preso un posto alla finestra, in ultima fila. Mi sono accertata di riuscire a vedere la lavagna e poi ho appoggiato il mio zaino sul banco e sono tornata alla porta, per vedere gli altri arrivare. Ho sperato in qualcuno con delle etichette diverse. Ho sperato di veder entrare un peruviano, un portoricano, un domenicano per fare il clan latino. E invece, appena ho messo il naso fuori nel corridoio, ho messo a fuoco la triade che avanzava verso di me dalla scala opposta. 


Ayida Wang scortata dalle fide compari con gli occhiali rosa si è fermata proprio davanti alla porta della classe ed è entrata. Non mi ha guardato in faccia, non mi ha rivolto parola. Si è sottratta alla sosta di valutazione di fronte al quartetto primo banco avanzando morbida verso il banco in diagonale rispetto al mio, nella fila davanti. Ha poggiato la borsa sulla sedia ed ha tirato fuori il cellulare. Molto Ayida. 


Devo essere rimasta a bocca aperta finché un attimo dopo è arrivata una decina di ragazzi e ragazze più chiassosi, che hanno fatto irruzione in modo giocoso e infantile. Mi sono presentata, ho ascoltato i loro nomi senza memorizzarne uno. Ma a questo, a memorizzare qualche nome, sono stati utili poi gli appelli che i professori ci hanno fatto nelle quattro ore seguenti. E tutti ci hanno chiesto di ridire le stesse cose, presentando poi i loro programmi, i loro metodi, le loro migliori e peggiori intenzioni. 


Verso la fine della mattinata, intorno a mezzogiorno, la professoressa di inglese stava distribuendo delle fotocopie tra i banchi quando è arrivata al mio e mi ha chiesto di alzarmi. Ha guardato i miei pantaloni e ha detto che questi sono troppo corti per venire a scuola. Ha fatto riferimento ad un regolamento che poi ci avrebbe portato in classe. 


Il quartetto prima fila ha scosso la testa con disappunto a questa scena. Le altre ragazze, coperte da top attillati, hanno sgranato gli occhi. Ayida si è voltata come per accertarsi che parlasse con me, e non con qualcun altro. I ragazzi ne hanno approfittato per guardarmi le gambe. Uno di loro, Diamond, ha osservato in inglese che a Edo in Nigeria quegli shorts lì non sono considerati corti. Così la prof si è distratta a rispondere a lui ed il processo è finito.


Poco dopo la campanella ha gracchiato e siamo usciti a sciame. Avevo appuntamento con la signora Wang perché si occuperà lei di me finché avremo l’orario ridotto. Mi sono girata per intercettare Ayida ma lei era già sparita. Dalla porta non era passata per cui probabilmente possiede un cavo speciale per uscire dalla finestra del primo piano senza schiantarsi.

Mi sono incamminata con due compagne, Gioia ed Elisa, verso il cancello. Mi stavano raccontando di un prof molto bello, hanno saputo dalle loro sorelle che toccherà anche a noi. Argomento interessante. Ero presa a parlare con loro e non ho visto in tempo per evitarlo un ragazzo che faceva acrobazie su una bici da cross, che mi ha centrata in pieno. La ruota mi è sbattuta sulla coscia e qualche ferro mi ha aperto la carne sul fianco. 


Questi poveri pantaloni arancioni. Stoici, nonostante le accuse di oscenità, sono rimasti indosso anche mezzi strappati. Il sangue però è spuntato e li ha imbrattati. La signora Wang, che mi attendeva fuori dalla sua mini-macchina, è corsa a aiutarmi ma poi è svenuta. L’ambulanza, arrivata in breve, ci ha caricate entrambe in direzione del Pronto Soccorso. Porca troia, che male. Mi hanno ricucito con otto punti.


Nel dubbio che non fossi coperta, mi hanno iniettato una dose di antitetanica ed ho iniziato una cura antibiotica. Mi hanno suggerito di stare cinque giorni a riposo.

Dopo un sobrio e trionfale ingresso nella nuova scuola, eccomi di nuovo nel mio eremo. Mi sono arrivati tutti i libri e inizio a sfogliarli mentre prendo le misure ai compagni tramite la chat di classe. Il prof bello sembra davvero bello come si dice, ma nessuna ha trovato il coraggio per fotografarlo a lezione. Anche perché i telefoni si lasciano in una scatola a scomparti sulla cattedra quando iniziano a spiegare.


Un paio di ragazzi mi hanno scritto in privato, ma non ricordo chi sono dal vivo e se mi possono piacere. Ho aggiunto Gioia ed Elisa su Instagram e mi sono trovata a guardare nella app cosa succede a Buenos Aires. Ho visto qualche nuovo tatuaggio, qualche alcolica uscita fino all’alba e qualche cosa che mi manca: quella sensazione di familiare e dolce che niente qui mi dà. Invece là tutto procede come se nessuno sentisse mancanza di me.


Ho ritrovato una story di Instagram in cui avevo questi pantaloni arancioni. Era dicembre e le strade erano inondate dai colori violacei della jacaranda. Mia madre mi aveva portato a fare shopping per la stagione calda e ci facevamo le foto da cretine per la strada, in mezzo a quei colori e con i filtri a mille. Avevo comprato gli shorts insieme ad un paio di sandali con la zeppa. Li ho con me. Sono curiosa di scoprire se nel regolamento della prof di inglese, ci sia una riga anche sulle scarpe.


Adesso sono qui, con la vanga dell’orto in mano, a dare a questi pantaloni sfigurati una degna sepoltura. Il mio sangue che portano addosso resterà per sempre dentro questa terra e ne porteranno le tracce i fiori vermigli che da qui spunteranno a primavera. Scavo ancora un po’ e poi li adagio nella fossa con un’espressione solenne. 


Poco distante c’è il mucchio delle fragole. I frutti rossi hanno ceduto il passo a delle lunghe gambe verdi, dette stoloni, che partono dal fusto e fanno altre radici da posizionare nel terreno. Ho visto la signorina Belli sistemarle in modo da ricreare un cerchio e ha spostato le pietre che lo delimitano, aggiungendone altre per allargarlo. Ha detto che si tratta di propagazione spontanea ma chi lo sa se è davvero così semplice, moltiplicarsi. 

Se così sarà, accanto a questo tripudio di piante camminanti riposerete trionfali. Addio miei fedeli shorts arancioni.


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