lunedì 11 luglio 2022

SOMOS FRUTILLAS - CAP 2,5

 

    seconda parte


“ConCon vuoi un’altra fetta?”

Rispondo a papà annuendo con le guance piene, come una bambina. Il succo di cocomero mi cola sulla maglietta e forma chiazze circolari. Le lascio proliferare e addento i semi che si aprono sotto i miei denti.

Osservo mio padre, nella sua figura sportiva e vestito di tessuti stirati, che si rimette in fila per me. 


Sono seduta con le spalle al Castello dell’Imperatore, con le gambe che penzolano verso la strada. Sotto di me c’è la signora Wang, attaccata al telefono. Quando la sento parlare in cinese quasi non la riconosco e anche i gesti che fa sono diversi da quando prova a conversare in spagnolo. Assume una risolutezza tutta distinta. Secondo me sta parlando con un investigatore privato a cui ha commissionato di trovare sua figlia, che è sparita dopo pranzo e non ha raggiunto la madre come da accordi.


La gente intorno a noi è allegra e a tratti schiamazza, ma senza eccessi. Le facce cinesi superano in numero quelle italiane, secondo me. Gente della mia età, praticamente non c’è. Ci sono bambini sparsi e bambine con le gonne bianche. Ci sono persone sopra i 40 anni che si divertono. Ci sono soggetti solitari che scroccano da mangiare e ripartono rapidamente. 


Quel macho atomico di mio padre è il più bello della piazza. C’è una donna che lo fissa mentre lui si sposta nella mia direzione. Lui arriva, mi porge il cocomero, aspetta che io me lo mangi e ci gustiamo un silenzio afoso e calmo. Mi sento stanca di avercela con tutti, come mai non faccio nessuna ramanzina a mio padre? Cavoli! Questa Italia mi sta rammollendo, la faccio passare liscia a tutti coloro che mi hanno rovinato la vita. Quello che c’è, veramente, è che non mi hanno rovinato niente. Mi sembra di avere finalmente avuto la mia occasione di volare. Anche se non l’ho programmato, per un certo verso era quello che volevo.


Parlo di un volo fisico, il primo aereo preso in età cosciente. Parlo anche di venire via da una combriccola che stava un po’ diventando una ragnatela. I piccoli furti, la rivalità tra donne che secondo me è la cosa più tossica dell’universo, e quel bugiardo di Ricardo. La cosa saggia sarebbe stata mettersi d’impegno e tagliare i fili e riconquistarmi la mia sfera d’azione libera a Buenos Aires. Certo così è diverso, ricomincio e non so da dove. Di sicuro, io voglio ricominciare.


Mio padre ha un volo da prendere di mattina presto ma la sera è giovane. E finalmente anche la gente della mia età è uscita dalle tane. Procediamo a caso e a braccetto e scopro con papà una rete di stradine strette e stipate di tavolini traballanti che sembrano ballare il tip tap e attaccarsi ai passi di chi ci passa. C’è scritto Spritz su quasi tutte le porte. Ci sono lavagnette appese alla grata delle finestre, ci sono vasetti di coccio pieni di tappi di sughero colorati.


Un posto tra tutti attira la nostra attenzione e troviamo posto. Si chiama Kaldi's Kaffe, serve cucina etiope. Il papà dice che è buonissima ed io mi chiedo quando mai mangerò in un ristorante toscano. Tutti a parlare della bistecca e del Chianti, ed io ordino lenticchie e pane injera. Per fortuna non c’è traccia di pomodori. Ma a proposito di tracce, ecco che sono finita su quelle di Ayida. 


A me sembra proprio lei quella seduta al tavolo nel vicolo del locale di fronte. Ha l’aria di essere in incognito e proprio questo me la rende riconoscibile. L’immancabile cellulare alla mano. Un paio di occhiali a specchio tra il rosa ed il sabbia, con lenti enormi. Questi accessori li ha in comune con le altre due ragazze del gruppetto. Ma quella frangia e quel modo di dondolarla per metterla a posto, secondo me sono i suoi.


Le ragazze, tutte e tre, sono cinesi. Sono magre e ben vestite, hanno i jeans strappati e dei top corti, nei toni chiari del bianco e del giallo. A turno si guardano allo specchio nelle app del cellulare e, osservando le smorfie che fanno, si stanno facendo dei video con gli effetti che mettono il naso e le orecchie da coniglietta. Avevo anch’io una app per fare i reel più carini, quando avevo delle amiche con cui uscire.


Di colpo una di loro si alza, come un suricato sentinella. Fa un cenno alle altre che si alzano rapide e si mettono, mi pare, a seguire qualcuno. O ad andare nella direzione da cui questo qualcuno è appena venuto. Non saprei con esattezza, perché ho mangiato dello zenzero che mi fa lacrimare e mi perdo i dettagli dell’operazione di spionaggio in corso. 


Con le papille gustative spalancate dalla cena piccante, seguo mio padre alla ricerca di un gelato al cioccolato. Ci vorrei anche del dulce de leche ma non credo ne abbiano qui. Cosa non manca qui, è la gente vestita a fiori. Invece hanno pochi tatuaggi. I ragazzi tatuati sono tutti a gruppi ma sono una minoranza. Mi mancano quei bicipiti disegnati con teschi e tribali dei porteños. Sto aspettando i miei 18 anni per iniziare a dare forma al mio disegno sulla pelle.

Vorrei tatuarmi delle grandi ali. Vorrei che invece delle penne avessero lame e specchi. Vorrei che il loro busto fosse un tronco di jacaranda e che i fiori fossero neri come la notte. Lo dico a mio padre che mi ascolta e sorride. 

“C’è tempo per pensarci ConCon. 

Ma volere è potere per chi è determinato come te”.


Lui deve andare poi. Lui deve sempre andare. Per vendicarmi di lui lo faccio salire in macchina con la signorina Belli anche se avrebbe potuto raggiungere la stazione a piedi. Io non lo metto in guardia, io aspetto con gli occhi socchiusi. E quando lei sterza alla sua maniera, lui si attacca alla maniglia e mi guarda, come per dirmi con pentimento “Bambina mia, nelle mani di chi ti ho messo!”.


Lui dormirà a Firenze, per prendere un volo all’alba domattina. Mi dice che Firenze è bella, devo approfittare dell’estate per andarla a girare. Mi dice altre cose da genitore che la mia mente non ascolta, poi mi abbraccia, mi dà una fava di cacao che teneva in tasca, ma non mi dice quando ci rivedremo. Nella nostra famiglia non facciamo promesse se non siamo sicuri di poterle mantenere. Noi siamo tipi da sorprese. E mi manca la mamma in questo momento, anche se non lo direi ad alta voce.


Poco più tardi, arrivata sana e salva nella mia camera in campagna, mi siedo a spazzolarmi i capelli con un pettine di legno. Sono al buio per non attirare zanzare. Nella notte al di là del mio davanzale non c’è fremito di animale, viene invece da fuori una brezza fresca e la lascio entrare. Poi chiudo la finestra e mi metto sul letto, anche se la mente non si vuole fermare. Mi rialzo, accendo la luce e passo in rassegna i sei o sette libri che fanno la fila sullo scaffale. Non lo noto da subito, ma si fa avanti un ticchettio regolare, come se un piccolo dito stesse iniziando a bussare.


Quando ci faccio caso, poi non posso più ignorare quel rumore e inizio a cercarne l’origine qua e là per la stanza. Ad un tratto, apro un cassetto e vedo una goffa piccola vespa che si azzarda a volare. Mi sbatte quasi sul naso, poi arranca verso la finestra e la trova chiusa. La percorre da sinistra a destra con sterzate degne della signorina Belli, poi sembra a me o si gira a guardarmi?

Io capisco. Mi appresto ad aprire la finestra e lei, nuova e impavida, esce nel mondo esterno. Le auguro bucce di cocomero e gelato al cioccolato. Le auguro di non smettere di volare. Ho sentito che c’è un detto: Volere o volare. Io prendo entrambe.



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