mercoledì 29 giugno 2022

SOMOS FRUTILLAS - CAP 1


Per la mia famiglia è molto importante che io conosca le mie radici.   

È per questo che mia madre mi ha spedito su un altro continente con un viaggio di 11 mila chilometri il giorno dopo il mio quindicesimo compleanno. L'idea era già seduta in un angolo della sua testa, non ne ho dubbi. Ma forse sarebbe rimasta sopita se poco prima della pandemia lei non fosse entrata in contatto con la signora Wang.

Sono una ragazza argentina, so preparare il mate da quando avevo sette anni e adoro gli alfajores. Ho una foto di me bambina con un alfajor gigante in mano, che sorrido, e la mia bocca è laccata di dulce de leche. Mi è capitato di nascere in Italia, da due genitori italiani, ma siamo venuti in Argentina quando avevo otto mesi ed io non mi ero mai mossa di qui. 

La mia idea di viaggiare è andare a Mar del Plata per una settimana d'estate e scottarmi le spalle. Ci vogliono 4 ore di autobus da Buenos Aires e le ho sempre affrontate volentieri, accompagnata da una mezza dozzina di empanadas al formaggio. E due alfajores.


La mia sventura deve essere stata che la signora Wang ha una figlia della mia età e per lei è molto importante conoscere le proprie radici. È per questo che quando la figlia, Ayida, ha compiuto cinque anni in Italia, lei l'ha mandata a vivere in Cina dai nonni. Non riesco a immaginare cosa sia scoppiato nella mente di quella bambina a trovarsi sola in un mondo di cinesi. Lo so che anche lei, a vederla da fuori, sarà sembrata cinese. Ma non credo sia stato facile.


La signora Wang è una professoressa universitaria di lingua cinese e lavora in Italia. Ma anche la sua passione per le culture latine deve far parte della mia sventura. Infatti con la voglia di migliorarsi nella lingua spagnola, ha deciso di far parte di un progetto di mobilità internazionale per docenti ed è approdata a Buenos Aires giusto a metà del 2019. Ha lavorato 6 mesi all'università, ha conosciuto diversa gente dell'ambiente e di lì anche mia madre.

Mia madre si chiama Carolina Manetti ed è entrata all'università solo da adulta, quando è rimasta senza lavoro e le hanno parlato della possibilità di fare da lettrice ai corsi di italiano per un periodo di 6 mesi. Esatto, proprio nel 2019. Entrambe nuove, entrambe curiose, mia madre e la signora Wang hanno legato molto. E avere le figlie come argomento comune, non ha giocato a mio vantaggio.


La figlia della signora Wang ha vissuto il primo lockdown in Italia nella città di Prato. Lo so perché sua madre è rimasta bloccata in Argentina a marzo del 2020 ed è stata a vivere da noi per mesi e mesi. La foto di sua figlia, una bambina in uniforme sotto una folta frangia, ha circolato spesso tra i soprammobili del salotto. Mia madre ha partecipato all'apprensione della signora Wang come se fosse figlia sua. 

Deve essere per questo che ha deciso di mandarmi in Italia a fare le superiori: per struggersi di tutti i guai in cui mi caccerò, a distanza. Quando i guai glieli ho combinati vicini, non ha mai dato l'impressione di trovarli poetici.


Il piano diabolico di mia madre è stata una vendetta così ben studiata che nutro seri dubbi che sia stata tutta farina del suo sacco.

Adesso mi trovo a Prato. E questo posto senza senso dove mi ha spedito mia madre, non è la capitale di niente. Non c’è nessuna metropolitana perché non c’è bisogno di andare da nessuna parte, la stazione principale dei treni è grande e pittoresca quanto quella di Tigre, a Nord di Buenos Aires.  Appena esci dalla sala dei biglietti c’è questo giardino con un chiosco delle caramelle. Prato farebbe davvero tenerezza, se non fossi confinata qui per tutto l’anno.


Ah ma poi dico Prato. Non mi hanno mica mandato a vivere in città. Questi amici della mamma che mi sono venuti a prendere abitano in aperta campagna. Prato la vediamo come un presepe a cui si arriva con una lunga camminata, roba di chilometri. Che non so se mi verrà mai la voglia di fare.

L’amica della mamma, la signorina Belli, guida come se l’automobile fosse sull’acqua. Quando sterza si slitta a destra o a sinistra, su una strada irta e piena di curve. Posso affermarlo per più motivi: qui non ci sono le premesse per la mia sopravvivenza.


Mi trovo in questa casa tra gli olivi. È luglio e fa caldo, anche ai giovani. Qui intorno ci sono strade di sassi e piante, tante piante che spuntano dove non hanno nessuna speranza, a metà di muretti in pietra. Ho visto un fico che prova a crescere sospeso, e non so dove abbia trovato spazio per le radici dentro al muro. Un altro fico sta maturando i suoi frutti nel retro della casa, ma l’incuria che regna in questo giardino ha reso l’erba tanto alta che a malapena lo scorgo. Se provi a raggiungerlo le gambe si coprono di graffi, a un certo punto c’è un rovo nascosto che ti afferra il piede e non lo lascia subito. Mi sono segnata la sua posizione. Tornerò per spogliarlo di tutte le more.


È trascorsa una settimana dal mio approdo in questo luogo e stanno iniziando a pensare che io sia strana per non aver mai domandato un passaggio per scendere nella brulicante e bollente Prato. Sono stata buona e mansueta come un cane di media taglia, ad annusare il giardino e le strade qui intorno. Ho scambiato qualche parola, qualche charla con i fratelli Belli, che mi terranno con loro per tutto l’anno.

Loro lavorano entrambi in una scuola a fianco di quella a cui sono iscritta e che dovrò frequentare da settembre.

 

Per non farmeli subito nemici, ho accettato con falso ma celere entusiasmo l’offerta di raggiungere un ristorante in città, per rivedere la signora Wang. Lei non guida e quindi sono io che vado da lei. Credo che il primo istinto che mi salirà alle mani sarà quello di strangolarla, per la bella idea che ha seminato in testa a mia madre. Al telefono mi ha detto che non è certa che ci sarà anche la figlia, perché è molto impegnata con i corsi estivi. 


Mi trovo in macchina con Riccardo Belli. Scopro per mia fortuna che lui sa guidare con la stessa sicurezza con cui parla. Non corre e non indugia. Gira il volante quanto è necessario e frena con la padronanza di chi decide i tempi e non li subisce. Nella mia testa, ripasso alcuni punti di un discorso che mi ribolle nelle vene e che vorrei affrontare con la signora Wang. 

Le mie radici, che a quanto pare erano qui attaccate in Italia e lo sono state per tutta la mia vita, cosa c’entrano con me? Di cosa mi sono nutrita in Argentina per gli anni della mia infanzia?
Parlo italiano anche se di certo faccio tanti errori. Me l’hanno parlato i miei genitori ma sempre e solo in casa. Io ho imparato a dire qualche parola perché era divertente, quando non lo è stato più, ho smesso.

E se anche la mamma ha sempre avuto le sue radici in Italia, come hanno fatto a nutrirla per i 14 anni in cui non ci ha messo piede? Siamo sicuri che il suo attaccamento sia ad un posto reale, come questo in cui ha spedito me, e non solo la fissazione per un’idea che non è evoluta?

Non me l’aveva detto, per esempio, che in Italia ci fossero tante insegne in cinese.


Apro la portiera della Peugeot di Riccardo Belli e mi assale un caldo direi putrido. Anzi a farci caso, sa di pesce. E infatti ci sta passando accanto un signore con una cassa di pesce sommerso dal ghiaccio. È il ghiaccio che puzza. 

Davanti a me vedo spuntare una ciminiera a righe bianche e rosse nello spazio fra i palazzi. Non emette fumo, dev’essere il monito che rimanda a un tempo passato. Da un lato della strada leggo il nome di un supermercato: Union City. Sul marciapiede opposto avvisto, incastrato tra una profumeria e una parafarmacia, il locale del mio appuntamento. “A bite of China”, specialità collo d’anatra. La mia resa dei conti è in salsa agrodolce.


Riccardo Belli, che da oggi chiamerò RB, mi scorta all’interno e per fortuna lo split dell’aria condizionata accesa compensa con la scelta del menù. Qui servono calde zuppe. La signora Wang avanza verso di me, alzandosi da un tavolo alla parete, e si appresta ad abbracciarmi. Mi stringe con la sincerità di chi ha appena ritrovato qualcosa di speciale. Mi stacco appena posso da tutta questa confidenza e mi faccio spiegare come si procede per il pranzo.

Mi mettono in mano una ciotola trasparente ed una pinza per alimenti. Ci sono due grandi frighi con ante scorrevoli e all’interno una selezione di pietanze di carne, di pesce e di cubetti di incerta consistenza. Seleziono degli spinaci, un paio di spiedini di pollo in salsa arancione, delle piastrelle di farina che presumo siano gnocchi e un salamino. Consegno tutto alla cassa, dove la ciotola viene pesata e si calcola il costo del pranzo. Il mio è di 10 euro che mi vengono offerte da RB. Mi sa che mamma gli manda una paghetta per me.


Mentre armeggio con pinze e polpette di pesce, la signora Wang mi osserva dal tavolino. Ad essere onesta, non sono arrabbiata con lei come avevo pensato. E a dirla tutta, non inizierò con lei quel discorso che mi frulla dentro. Perché poi la vedo diventare minuscola quando entra nel locale quella ragazza dritta che dev’essere sua figlia. La vedo che abbassa la testa e si fa servile. La vedo che rincorre lo sguardo della figlia ma non lo raggiunge. E provo dispiacere più che rabbia, mi fa un po’ pena. Non credo che abbia le risposte che cerco sulle persone e le radici.


Ho in mano un braccialetto con un numero scritto sopra, numero 15, quando mi presento alla famigerata Ayida. Lei è alle prese con il telefono e non alza la testa neanche per un’ipotesi di cordialità. In Argentina noi baciamo dei perfetti sconosciuti, noi condividiamo la tazza del mate con chi troviamo alla fermata del bus. Questa gente dev’essere cresciuta con poco calore.


Mi siedo sotto una scritta in inglese composta con delle luci al neon. RB si congeda e mi dice di scrivergli quando voglio tornare a casa. La signora Wang vuole sapere quali sono le mie prime impressioni ed io mi trovo a raccontarle di quel fico, che è spuntato dove non ha nessuna speranza di crescere. Le dico che di notte si sentono i bramiti dei cervi proprio al di là della nostra siepe e di come le stelle sembrino più lontane. Va a finire che avevo voglia di vedere una faccia nota e mi scopro a parlare con lei con trasporto.


Esce dalla cucina una signora con una ciotola in mano e chiama il numero 15. Prendo le bacchette, un cucchiaio e mi siedo ad affrontare il pranzo. Ayida si è staccata dal telefono giusto per scegliere a sua volta cosa mangiare, poi l’ha ripreso e non ci degna di particolare attenzione. 

Il pranzo si conclude piuttosto lentamente, ma poi i saluti sono rapidi e mi trovo da sola sulla porta del locale, senza le istruzioni per andare a scoprire questa Prato.


Svolto a sinistra e poi a destra, come in tutti i film horror in cui si finisce nella bocca del mostro sovrumano. Mi trovo a percorrere via Filzi finché il tanfo nauseante di un camion di spurghi mi fa imboccare una traversa e continuare su via Pistoiese. Mano a mano che procedo le insegne cinesi si diradano e lasciano spazio ad alcuni bar con scritte italiane. Poi di colpo avvisto dall’altro lato di uno stradone una porta antica e decido di attraversarla.


Varco quella porta di pietra dalle entrate pedonali, l’ombra lambisce tutto il marciapiede e mi conduce verso una piazza con una grande chiesa. Ci sono due o tre gruppi di persone straniere, che sostano e vociano proprio nell’angolo da cui arrivo io. Un ragazzo sui vent’anni mi fissa senza remore e senza pretese. Ricambio il suo sguardo con decisione e osservo il suo colorito. Non so di preciso da dove venga, gli sorrido e proseguo. Con la punta dell’orecchio colgo una lingua che suona indiana.


Procedendo a caso, seguendo odori e campanelli di biciclette, mi trovo davanti ad una libreria in una strada che diresti: ma qui non ci passa nessuno! E invece ci sono capitata anche io. Vedo da Google Map che si chiama Mondi Paralleli ed entro. Ci sono centinaia di fumetti riversati sui tavoli centrali e negli scaffali alle pareti. I volumi sono organizzati ma resta spazio a una certa confusione che mi rilassa: posso toccare e spostare senza apprensione. 


A Buenos Aires c’è questa libreria stupenda, dentro un vecchio e grande teatro in Avenida Santa Fe. Prima vi proiettavano film muti mentre le orchestre suonavano tango dal vivo. Adesso i libri hanno riempito tutto lo spazio. Sono così tanti che è evidente che lì dentro. comandano loro. El Ateneo Gran Spendid. Mi ci ha portato Ricardo quella volta che. Lasciamo perdere Ricardo.



Proprio sotto al bancone della libreria di Prato, davanti alla porta, hanno messo la sezione bambini, in basso, a portata di piccoli occhi e piccole mani. Mi piace iniziare da qui a valutare le proposte del negozio. Ammettiamolo! I testi brevi in un italiano facile, sono anche quelli che mi fanno meno fatica. Tra i libri meno infantili, ne noto uno con una copertina grigia con dettagli in giallo sole. Che curioso! Sono i colori con cui sono vestita oggi. Titolo “Il mio cuore”. Lo sfoglio ed è la storia di un cuore che, piantato nel terreno, mette le radici. 

All’inizio c’è un seme minuscolo, di cuore giallo sole, che viene piantato in un campo. Giro la pagina e dal seme minuscolo inizia la crescita. La crescita può superare se stessa e colorare sempre più di giallo la pagina grigia. Un arbusto diventa albero altissimo. E le persone si raccolgono sotto la sua chioma. Lo contemplano perché ora è gigantesco, ma prima era seme.

Giro la pagina ed un ragazzino fa dono di una frasca presa dalla chioma giallo sole ad una ragazzina con gli stivali. In quella frasca, si celano tanti piccoli cuori minuscoli che potranno crescere. Questa cosa mi spacca il cervello.


Resto diversi minuti con la faccia su queste pagine. Quelli del negozio mi lasciano fare. Mi sa che hanno capito che non potrò comprare quel libro: io non ho soldi. Ma hanno anche capito che mi piace tanto. Lo guardo e lo riguardo. Le radici del seme si vedono in un’altra pagina, in cui un ragazzino con gli occhiali scava una piantina via dal terreno e la mette in un vaso. I vasi rendono possibile che le radici viaggino.

A questa cosa non avevo pensato.


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